“Cosa diavolo è l’acqua?”
Due giovani pesci nuotano e incontrano un pesce più anziano. Lui li saluta: “Com’è l’acqua, ragazzi?”.
I due continuano a nuotare, finché uno chiede all’altro: “Che cos’è l’acqua?”.
Questa è la storiella con cui si apre il celebre discorso di David Foster Wallace, “Questa è l’acqua”.
Una metafora potente su tutto ciò che ci circonda in modo così pervasivo da diventare invisibile. Come l’acqua per i pesci.
Come certe scelte di design per chi usa prodotti digitali.
Come la conversazione, per chi dialoga con un assistente virtuale.
Nel conversational design, l’acqua è ovunque. Ma per i designer, riconoscerla è un dovere.
Perché se l’utente non la nota, significa che abbiamo fatto bene il nostro lavoro.
Il discorso completo è sul mio blog, qui
Il conversational design è design invisibile
Il conversational design ha una particolarità: non si vede.
Non ci sono layout da valutare, colori da scegliere, forme da sistemare.
C’è solo il linguaggio. E un flusso.
Ma proprio come l’acqua, questo flusso può essere:
- naturale o artificiale,
- accogliente o disorientante,
- trasparente o torbido.
L’utente percepisce tutto questo senza pensarci davvero. Se l’interazione fila liscia, non se ne accorge nemmeno. Ma se qualcosa stona — una risposta fuori contesto, un tono incoerente, un blocco nella conversazione — l’illusione si rompe.
Le scelte che l’utente non vede (ma sente)
Nel design di una conversazione, ogni dettaglio conta:
- Il tono di voce: formale, amichevole, neutro. Chi parla con me?
- La ritmica dei turni: troppo veloce, troppo lenta, troppo lunga?
- I punti di uscita: posso interrompere? Posso tornare indietro?
- Le risposte previste e non previste: che succede se scrivo qualcosa “fuori copione”?
- I fallback: l’assistente sa ammettere di non sapere?
Tutte queste scelte sono invisibili per l’utente.
Non vengono notate. Non vengono riconosciute.
Ma vengono vissute — e spesso determinano il successo o il fallimento di un’esperienza.
Progettare l’acqua: il ruolo del designer conversazionale
Il lavoro del designer non è solo scrivere messaggi.
È modellare un ambiente di interazione.
Proprio come un urbanista progetta gli spazi pubblici in modo che le persone si muovano con naturalezza, il designer conversazionale progetta conversazioni in cui l’utente si senta a suo agio, guidato, ascoltato.
Serve empatia, logica, linguaggio. Ma serve anche consapevolezza di ciò che è invisibile:
- le emozioni implicite nelle parole,
- la fiducia o la diffidenza,
- il bisogno di controllo o di delega.
Progettare il flusso conversazionale significa dare forma all’acqua in cui l’utente nuota.
La trappola della semplicità apparente
Molti pensano che il conversational design sia “scrivere due prompt” o “aggiungere un chatbot al sito”.
Ma dietro un’interazione semplice si nasconde una complessità progettuale enorme.
Un’interfaccia conversazionale ben fatta:
- anticipa errori,
- conosce i limiti del sistema,
- gestisce ambiguità,
- accompagna l’utente senza farlo sentire guidato.
Quando funziona, sembra ovvio.
Ma è proprio lì che si misura la qualità del design: nella sua capacità di sparire.
Esercitarsi a vedere l’acqua
Wallace concludeva che il vero lavoro della consapevolezza è imparare a vedere l’acqua.
Nel nostro caso, imparare a notare:
- i turni mal progettati di un assistente virtuale,
- il tono incoerente tra chatbot e sito,
- la rigidità di un flusso che non ammette deviazioni.
Per il designer, questa sensibilità è tutto.
Non è creatività fine a sé stessa, è cura del dettaglio invisibile.
Solo così possiamo progettare esperienze davvero fluide, credibili, umane.
Conclusione: sapere dove siamo
Nel 2025 il conversational design è ovunque.
Assistenti AI, agenti intelligenti, chatbot nei siti, nei servizi, nelle app.
L’acqua è dappertutto.
Ma proprio per questo, dobbiamo ricordarci — ogni giorno — che esiste.
Perché progettare bene significa non lasciare l’utente a nuotare a caso.
Significa sapere dove si trova, dove vuole andare… e cosa c’è intorno a lui.
Questa è l’acqua.