All’università ho studiato architettura. Ho passato anni a imparare che un edificio non è solo forma e struttura, ma spazio vissuto, attraversato, sentito.
Quando oggi vedo un chatbot buttato lì “perché serve”, mi sembra di entrare in una casa senza finestre.
Troppo spesso, l’intelligenza artificiale viene trattata come un’aggiunta tecnica: qualcosa che si attiva, si integra, si connette. Ma un assistente AI non è un modulo da installare. È un ambiente da progettare. E come ogni ambiente, può farci sentire accolti o respinti, confusi o guidati, frustrati o rassicurati.
Le domande da architetto che ogni team dovrebbe farsi
Progettare un’esperienza conversazionale richiede le stesse domande che mi facevano ai primi esami:
- Chi entra?
- Dove si muove?
- Cosa vede, cosa sente?
- Come capisce dove andare?
- Cosa prova?
In altri termini: chi sta parlando con il nostro assistente? Dove si trova (canale, momento, contesto)? Quali aspettative ha? Quali bisogni? Quali emozioni possiamo anticipare, accogliere, trasformare?
Insight pratico 1: Parti dalle conversazioni che valgono
Non tutte le conversazioni vanno automatizzate. Alcune sono irrilevanti. Altre sono troppo complesse. Altre ancora sono perfette per diventare il primo punto di contatto intelligente tra brand e persona.
Consiglio: osserva dove oggi c’è attrito, ripetizione, domanda non soddisfatta. È lì che vale la pena inserire un assistente.
Insight pratico 2: Senza un persona chiaro, l’esperienza si spezza
Le persone proiettano immediatamente un’identità su chi parla loro, anche se è una macchina. Se non progetti un tono coerente, quell’identità cambia a ogni risposta. E quando cambia, genera sfiducia.
Consiglio: definisci la personalità dell’assistente come fosse un personaggio. Nome, età, modo di esprimersi, valori. Fanne la voce viva del tuo brand.
Insight pratico 3: Non tutti parlano come scrivono
La voce è diversa dal testo. Un chatbot scritto male è irritante. Un voicebot progettato senza attenzione al ritmo, alla pausa, alla ripetizione… è insopportabile.
Consiglio: leggi ad alta voce ogni conversazione. Se non suona bene a voce, non funziona nemmeno nel testo.
Insight pratico 4: Non servono superpoteri, ma un metodo
Sto seguendo la certificazione ufficiale del Conversation Design Institute. Molte delle riflessioni qui riportate nascono da quel percorso, che unisce teoria, casi reali e strumenti pratici per creare assistenti realmente efficaci. Il CDI Workflow, che ne rappresenta l’ossatura metodologica, propone un approccio che mette ordine in un campo ancora troppo improvvisato. Ogni fase ha uno scopo preciso: esplorare l’organizzazione, definire i casi d’uso, capire chi parlerà con l’assistente, costruire una strategia coerente, testare e migliorare.
Consiglio: non iniziare dal tool. Inizia dal perché. Poi dal chi. Poi dal cosa. Il come viene dopo.
Checklist: stai progettando (davvero) un assistente AI?
Prima di far partire il progetto, fermati un momento. Questa checklist ti aiuta a capire se stai costruendo un assistente funzionale o se stai davvero progettando un’esperienza conversazionale completa.
- Hai previsto iterazioni e miglioramenti nel tempo?
- Hai definito obiettivi chiari (business e esperienza)?
- Hai coinvolto figure diverse (UX, copy, AI trainer)?
- Hai identificato le conversazioni che valgono?
- Hai studiato il tuo pubblico e i canali che usa?
- Hai disegnato un persona chiaro e coerente?
- Hai testato l’assistente con persone vere?
Conclusione: il futuro non risponde. Comprende.
Un assistente AI non deve solo funzionare. Deve essere utile. Riconoscere questa differenza è il primo passo per creare esperienze che funzionano davvero: per l’utente, per il team, per il business.