Ci sono giornate in cui il lavoro pesa più del dovuto, non per la quantità di cose da fare, ma per l’ambiente in cui ci si muove. Non è la fatica delle task, è la fatica di sentirsi sempre da soli. Di non trovare mai uno spazio dove ci si aiuta, ci si ascolta, ci si spinge a migliorare insieme.
Qualche giorno fa, dopo aver pubblicato un post su LinkedIn legato alla pubblicazione del mio libro, sono tornata in contatto con colleghi dei miei percorsi professionali passati. È stato bello. E anche un po’ malinconico.
Mi ha fatto riflettere sul mio percorso. Sono stata fortunata: ho iniziato quando internet era agli inizi e ho condiviso esperienze, difficoltà e scoperte con colleghi che, in quel momento, erano una vera famiglia. Ricordo bene che se uno era in difficoltà, c’era sempre qualcuno pronto ad aiutare. Anche se non poteva materialmente farlo, stava con te tutta la notte, ti portava un caffè alle 3 o semplicemente ti faceva sentire che non eri solo.
Man mano che sono passati gli anni, questa attitudine sembra essersi affievolita. Ed è un peccato. Non è colpa dello smart working o dei cambiamenti tecnologici. È proprio una questione di cultura del lavoro, del “fare insieme”.
Ricordo che durante il periodo del Covid, ho lavorato a un progetto complesso con due colleghe. Nonostante le difficoltà esterne, è stato uno dei momenti più divertenti e intensi della mia carriera. Abbiamo raggiunto un grande risultato, ma soprattutto c’eravamo, una per l’altra. Questo, più di ogni altra cosa, ha fatto la differenza.
Forse oggi, in un’epoca di AI, di social, di conversazioni continue, dovremmo fermarci un attimo e chiederci cosa significa davvero essere umani. E cosa significa davvero lavorare insieme. Perché usare uno strumento non significa collaborare. E condividere un momento non è la stessa cosa che esserci.
Mi capita spesso di chiedermi: dov’è finito lo spirito di squadra? Perché sembra che il lavoro sia diventato un gioco a chi si difende meglio, non a chi cresce di più? Troppo spesso si assiste a dinamiche dove si cerca di affossare l’altro, di metterne in luce l’errore, come se questo bastasse a sollevarci. Ma non funziona così.
Il miglioramento non nasce dal confronto tossico, ma dal confronto costruttivo. Dal potersi dire le cose in modo onesto, senza puntare il dito. Dal poter condividere un dubbio senza essere giudicati. Dal potersi dire: “Oggi non ce la faccio” senza sentire che stai perdendo punti.
Ho pensato a tutto questo rileggendo le idee del libro Strategia Oceano Blu. Una delle immagini più forti è proprio la distinzione tra oceani rossi e oceani blu. Gli oceani rossi sono i mercati saturi, pieni di competizione, di squali, di sangue. Gli oceani blu sono quelli dove si crea valore, dove si innova, dove si apre uno spazio nuovo.
E se lo portassimo dentro di noi, questo oceano blu? Se invece di confrontarci per vincere, lo facessimo per diventare versioni migliori di noi stessi? Se smettessimo di guardare il collega come un pericolo, e iniziassimo a guardarlo come un alleato? O anche solo come una persona che, come noi, sta facendo il possibile?
Credo che sia urgente cambiare lo sguardo. Passare da una cultura del sospetto a una cultura della fiducia. Da una cultura della prestazione a una della presenza. Da una cultura della gara a una della crescita.
Questa riflessione è anche un piccolo seme per una nuova rubrica: pillole per freelance, designer, persone che lavorano e che ogni tanto si sentono stanche, sole o inadeguate.
Non è coaching. Non è psicologia spicciola. È solo uno spazio per respirare e dire: non siamo macchine. Non dobbiamo dimostrare sempre qualcosa. A volte basta fare bene il proprio lavoro. O anche solo prendersi cura di come lo si fa.
E magari, ogni tanto, aiutarsi a vicenda.