In ogni immagine promozionale dei dispositivi Apple c’è un dettaglio che torna sempre uguale. Lo trovi negli screenshot degli iPhone, degli iPad, perfino dei Mac: l’orario segnato è quasi sempre 9:41. Non è un caso. Non è un errore di copia-incolla o un segnaposto rimasto lì per sbaglio. È una scelta precisa, voluta, pensata.
Il 9 gennaio 2007, Steve Jobs sale sul palco del Macworld Conference & Expo. Dopo una lunga introduzione, annuncia: “Today, Apple is going to reinvent the phone”. Quando appare sullo schermo l’immagine del primo iPhone, l’orologio segna 9:41. Da quel momento, Apple ha deciso che ogni volta che un dispositivo veniva mostrato in un’immagine, l’orario sarebbe stato quello: 9:41. Un omaggio a quell’istante. A quel passaggio. Al momento in cui la tecnologia ha cambiato per sempre.
Molti non se ne accorgono. E va bene così. Non tutto ciò che progettiamo deve essere compreso da tutti. Ma ogni elemento deve avere un senso.
Questo è il cuore della progettazione: inserire significato anche dove nessuno guarda. Perché è quel significato, invisibile e silenzioso, che costruisce coerenza, armonia e valore nel tempo.
Personalmente, nella mia vita ci sono state poche persone che sono riuscite davvero a ispirarmi. Quelle figure a cui pensi quando hai un dubbio, quando ti senti bloccata, o quando devi prendere una decisione difficile. Per me, una di queste persone è Steve Jobs.
Ho studiato e analizzato ogni sua presentazione decine di volte, cercando di capire non solo cosa diceva, ma come lo diceva. Il ritmo delle parole, le pause, la scelta delle immagini, l’arte del racconto. Ho cercato di imparare come si comunica, come si crea tensione, come si costruisce senso. Perché comunicare bene non significa solo spiegare: significa far sentire qualcosa.
Ecco perché il 9:41 è importante. È un simbolo di quella cura per il dettaglio che forse non tutti noteranno, ma che contribuisce a rendere un’esperienza credibile, coerente e potente.
Nel design, nella comunicazione, nello storytelling, quello che conta non è far vedere quanto sai. È creare una connessione, un’emozione, un piccolo momento di verità.
Chi progetta esperienze digitali spesso si concentra sulla funzionalità, sull’efficienza, sulle regole. Tutto giusto. Ma c’è un altro strato, più profondo, che riguarda il significato. Ogni elemento che inseriamo in un’interfaccia racconta qualcosa: il tono di un microcopy, il modo in cui si apre un menù, la presenza o meno di un’animazione, la cura nello spacing tra gli elementi. E poi ci sono i dettagli invisibili, quelli che nessuno noterà consapevolmente ma che fanno sentire l’utente “a casa”.
Il 9:41 non è solo un orario. È un modo di dire: ci abbiamo pensato. Abbiamo dato un senso anche a questo.
Nel mio lavoro di tutti i giorni, spesso mi chiedo: “Se fossi l’utente, mi sentirei ascoltato? Mi sentirei guidato? Mi sembrerebbe tutto armonioso anche se non capisco ogni dettaglio?”
E quando mi blocco, mi chiedo: “Cosa avrebbe fatto Steve Jobs in questo caso?”
Non perché voglia imitarlo. Ma perché mi ricorda che si può fare innovazione con eleganza. Che si può semplificare senza impoverire. Che si può progettare con intenzione.
Un progetto ben fatto non è quello in cui ogni cosa viene spiegata. È quello in cui ogni cosa ha senso, anche senza essere spiegata.
Quando racconti una storia, quando progetti un’esperienza, quando costruisci qualcosa per gli altri, ricordati che le persone non devono capire ogni singolo dettaglio. Devono percepire che tutto ha un filo. E questo basta.
Ecco perché il 9:41 è diventato per me un piccolo mantra. Una sorta di promemoria: fai attenzione, anche quando nessuno guarda.
Ed è anche questo il motivo per cui continuo ad amare il design. Perché mi permette, ogni giorno, di cercare quel tipo di bellezza che non si vede, ma si sente.
E se anche solo una persona lo percepisce, allora valeva la pena.